Si parla spesso di hate speech e di quello che legislatori e corti di tutto il mondo dovrebbero mettere in atto per eliminarlo o comunque limitarlo.
Lo scorso 28 marzo, la Corte Suprema del Colorado ha stabilito che la frase “destinato a molestare” (intended to harrass) nella legge dello Stato sul cyberbullismo viola le protezioni del Primo Emendamento, così come una disposizione di libertà di parola nella costituzione del Colorado stesso. La Corte ha chiarito che la frase “è sostanzialmente eccessiva sul suo volto (per come si presenta, ndr), sconfinando inammissibilmente nel discorso protetto”.
Il parere trae origine da un case, quello di Alfred Moreno, che è stato accusato di molestie online per un post su Facebook che affermava che una donna aveva una malattia sessualmente trasmissibile. L’autore aveva reso il post visibile a chiunque nella sua lista di amici avesse rapporti sessuali con la donna. La legge del Colorado prevede che una persona commette molestie “se, con l’intento di molestare, infastidire o allarmare un’altra persona” usa strumenti di comunicazione digitale per avviare la comunicazione o il linguaggio diretto verso un’altra persona “in un modo destinato a molestare o minacciare lesioni personali o danni alla proprietà”. La legge si applica anche a chiunque faccia commenti osceni attraverso strumenti di comunicazione digitale.
A tal proposito, dunque, la Corte Suprema del Colorado ha affermato che l’inciso, contenuto nella legge “inteso a molestare” potrebbe limitare il discorso protetto. La Corte ha eliminato la frase dallo statuto, lasciando comunque in vigore il divieto di comunicazioni elettroniche che sono oscene o che minacciano lesioni personali o danni alla proprietà. Nel parere è stato specificato che “Il cyberspazio è la moderna piazza pubblica, e brulica di ascoltatori bramosi (di linguaggio scabroso, ndr)”, ha detto la corte. “Quando gli sfrenati scelgono di lanciare insulti nell’arena digitale, questi insulti possono metastatizzare. Le offese casuali si diffondono e si intensificano”. “Oggi, il passaggio di un dito può spesso bloccare, o almeno cancellare, una comunicazione elettronica indesiderata”, ha detto la corte. “Questo è un piccolo prezzo da pagare per la libertà di espressione”.
È davvero interessante che la Corte Suprema di una delle democrazie occidentali più antiche del mondo abbia posto una particolare attenzione al linguaggio utilizzato dal legislatore stesso. In un contesto in cui si fa fatica a predisporre all’interno di una stessa azienda una social media policy che metta d’accordo i C-Level di marketing, legal, compliance ed HR, risuona particolarmente familiare il fatto che anche legislatori e giudici siano in disaccordo proprio sulla scelta del tipo di linguaggio da utilizzare e sul tone of voice in una legge che ha lo scopo di regolare la comunicazione sui social.
La verità è che il tema è tutt’altro che banale.
Non è semplice, infatti, in un contesto digitale, riuscire a codificare cosa sia lecito e cosa non lo sia, nel totale rispetto del diritto fondamentale della libertà d’espressione garantendo la comprensione da parte dell’utente finale, senza che però sia l’ordinamento giuridico stesso ad abbassare il proprio registro linguistico. D’altro canto, si è più volte osservato come sia necessaria una presa di coscienza da parte del Legislatore del fatto che attraverso un linguaggio giuridico altisonante non si consente al destinatario stesso della prescrizione di comprendere cosa sia ammesso e cosa no, con la conseguenza che la legge perde di quell’effetto deterrente che dovrebbe avere.